Tredicesimo piano, loft di Manhattan, ore tre e mezzo del mattino. La grande stanza è riempita dalla semioscurità. Al fondo, in un angolo delimitato da due séparé, solo il bagliore di una candela. Lei mi aspetta lì, adagiata su una chaiselongue. Vista così, con i capelli che scendono a incorniciare un viso straordinariamente ovale, sembra una bambola a cui, per divertimento, abbiano tolto pizzi e merletti e infilato un abitino-sottoveste che più corto non si può. Quando mi vede, si staglia sul tacco di dodici centimetri e mi si avvicina. Mi dice di mettermi comodo e, ancora prima che mi sieda, mi avvolge le braccia attorno alla vista e mi bacia sulla guancia. Il mio incontro con Mariah Carey comincia così.
Nata poco lontano da qui, a Long Island, trentotto anni fa, di cui 18 passati a vendere 160 milioni di dischi nel mondo, è l'artista femminile di maggior successi di tutti i tempi, a pari merito con Elvis Presley nell'essere riuscita a piatzzare 17 singoli in cima alle classifiche americane, e dietro soltanto di 3 rispetto ai Beatles. L'occasione del nostro tête-à-tête viene offerta dal lancio di E=MC², la formula della relatività che ha reso famoso Einstein, ma anche il titolo dell'album — l'undicesimo della sua carriera — con il quale la cantante minaccia di infrangere anche il record dei Beatles.
L'intervista doveva essere alle 11 di sera ma, tri disguidi e ritardi, si è fatta notte fonda. Lei è stanca e, forse per questo, sembra disposta a parlare di qualsiasi cosa. Accetto un primo e anche un secondo bicchiere di vino bianco. Prima di entrare, mentre facevo anticamera, una pierre del suo entourage si è lamentata del fatto che di Mariah i giornali parlano soprattutto in riferimento al suo guardaroba, alle case che ha sparse per il mondo, ai veri o presunti ritocchi estetici o capricci da primadonna, ma dimenticano il fatto che lei scrive e produce gran parte delle sue canzoni, e non si limita a cantarle come tante altre colleghe. Così, quando me la trovo davanti, visibilmente esausta, le chiedo subito del singolo che ha anticipato l'uscita dell'album.
In “Touch my Body” lei canta: “Tocca il mio corpo, gettami a terra, lotta con me,” E continua: “Fammi avvolgere le gambe intorno alo tua vita, e dammi quello che merito.” Alle femministe non ha pensato quando ha scritto il testo?
“Si, qualcuno dirà che è un po' misogino. Ma è solo una canzone. L'idea era quella di fare qualcosa di diertente. Ero in studio con la mia amica Crystal e con Tricky e Dream (i due produttori che hanno scritto “Umbrella,” il successo di Rihanna, ndr) e abbiamo iniziato a improvvisare. Uno buttava una parola, l'altro ribatteva con una strofa. Siamo andati avanti così, come in un dialogo tra amanti, e alla fine la canzone era pronta.”
E, a quel punto, decide di darmi una dimostrazione pratica. Intona una strofa, fa una pausa, riattacca con note altissime, poi riprende il discorso, come se niente fosse.
“Questo per dire che non si dovrebbe prendere il testo troppo sul serio. È solo un invito a vivere la vita con pienezza.”
Va bene, però, se mi permette, che cosa c'entra una canzone così con l'Einstein del titolo dell'album?
“Mariah Carey e Albert Einstein. Sapevo che mi avrebbero preso in giro per l'accostamento, ma e un titolo volutamente ironico. Sarà um aspetto di me che si coglie poco, ma so ridere di me stessa, e ho imparato a non preoccuparmi più di tanto anche quando lo fanno gli altri.”
A proposto di Einstein: andava bene a scuola?
“Scherza? Ma se ho fatto la scuola da estetista!”
C'è da studiare anche li, no? Però ho letto da qualche parte che in classe la chiamavano “miraggio.”
“Perche non ci andavo mai.”
Ha sempre voluto fare la cantante?
“Canto da quando avevo tre anni. Non ricordo un solo momento della mia infanzia in cui non ci fosse un sottofondo musicale. Mia madre era una cantante d'opera. Imparare a camminare, parlare, cantare: per me sono tutte cose che sono arrivate assieme.”
Musica a parte, com e stata la sua infanzia?
“Non facile. Mia madre era del Midwest, e aveva quindici anni quando si è trasferita da sola a New York per frequentare la Juilliard School (la scuola d'arte da chi sono usciti musicisti come Miles Davis e Nina Simone e attori come Robin Williams e Kevin Kline, ndr). Qui ha conosciuto mio padre e poco dopo, ancora ragazzini, si sono sposati. Lei blanca, di origini irlandesi, e lui di colore, afro-venezuelano. Nell'America di quegli anni i matrimoni misti non arabi accettati. Né dai banchi né dai neri. Sono cresciuta con poche cose, non c'era denaro. E, dopo un po', non c'era neanche mio padre. I miei hanno divorziato quando avevo tre anni.”
Come avete fatto a tirare avanti, con sua madre, da sole?
“Dandoci da fare. La mamma era capace di portate avanti tre lavori allo stesso tempo. E poi, appena ho potuto, ho cercato di guadagnare qualche soldo anch'io.”
Si ricorda che cosa ha comprato con la prima paga?
“Mmm… mi faccia pensare. Avevo undici anni. Probabilmente un asciugacapelli, o del make-up.”
È vero che ha dato tutto le sue pellicce in beneficenza?
“Sì: non le indosso più. Costano troppe sofferenze.”
Impregnata anche politicamente?
“La politica mi piace, a la seguo quando posso. Ma mi guardi: sono qui a parlare con lei nel cuore della notte. Pensa che abbia tempo da dedicare ai dibattiti in TV?”
Hillary Clinton o Barack Obama?
“Mi piacciono tutti e due. Ma siamo onesti: per me, che sono di razza mista come lui, sarebbe assurdo non tifare Obama. L'entusiasmo che lo circonda mi commuove. Ci fosse stato un esempio così quando ero bambina e mi sentivo diversa da tutti, avrei sviluppato piì autostima.”
La candela ci lascia. Cerco di leggere gli appunti al chiarore delle luci della città, oltre la finestra. Lei prende a parlare di Italia.
“Ma lo sa che è il mio Paese preferito? Capri e Roma sono i due posti che amo di più al mondo. E non lo dico perché lei è italiano. Vorrei essere proprio li in guesto momento, a farmi una bella mangiata. Magari potessi…”
Perché non può?
“A volte penso che le cose, a questo punto della mia carriera, dovrebbero essere più facili. Invece succede l'esatto contrario: mi ritrovo a lavorare sempre di più per mantenere quello che ho conquistato, per non deludere le persone che dipendono da me. A volte mi sembra che non ho diritto di lamentarmi.”
Che cosa le ha insegnato la sua lunga carriera?
“Che tutto può cambiare. Che oggi sei importante e domani puoi non esserlo più. Ma anche che gli artisti possono creare opere di valore capaci di resistere alle mode, e anche ai bastoni che i dirigenti ti mettono tra le route.”
Lei, un dirigente, lo ha sposato: Tommy Mottola, che le offrì il primo contratto. E le cose non sono andate bene.
“Ma è roprio questo il punto. Gli artisti creano cose que trascendono dal contingente. Ancora oggi, quaindo riascolto quello che ho fatto musicalmente con Tommy, mi sento molto felice e orgogliosa. Il matrimonio non è durato, ma la musica è rimasta.”
Proprio dopo la fine del matrimonio, lei ha vissuto una crisi. Ha perduto il contratto, si è parlato di esaurimento nervoso, e il suo film, Glitter, è stato un fiasco. Poi, nel 2005, il successo a sorpresa del nuovo album, The Emancipation Of Mimi. Che cosa ricorda del periodo buio?
“Mi sono ritrovata da sola a fronteggiare le peggiori paure della min vita. Ricordo una conversazione avuta in quel periodo com mio padre (che nel frattempo aveva ritrovato dopo tanti anni senza contatti, ndr). E propio a lui, malato terminale di cancro, raccontavo che la morte mi faceva meno paura di quello che stavo vivendo. Non poteva crederci, e forse farà fatica a credermi anche lei, ma era la verità. Ero terrorizzata perché stavo perdendo tutto quello che avevo construito. Ma sono sopravvissuta, e sono piena da gratitudine per tutto quello che ho. Anche se, lo so, agli occhi di molti quello che sono e rappresento è solo spazzatura. E forse non ho ancora trovato una persona che mi ami…”
Fa una pausa, poi continua.
“O forse ce l'ho… Sto ancora cercando di capirlo.”
Capisco che si sta riferendo al suo fidanzato quasi segreto, il produttore Mark Sudack. E penso che a lui forse non farebbe piacere vederci ora. Lei che parla a venti centimetri dal mio viso e mi posa la mano sul ginocchio, io che fatico a noi perdere il filo.
Tutti questi alti e bassi, e gioie e dolori, li esprime sempre in musica. O ci sonno cose che tiene per sé e che magari preferisce confessare agli amici?
“Più spesso è la musica la mia valvola di sfogo. Troppe amicizie sono superficiali, si parla solo di banalità. Non penso di aver mai incontrato nessuno con cui parlare sentendomi davvero a mio agio.”
È innamorata?
“Non lo so. Onestamente, non so che cosa rispondere.”
Pensa un giorno di costruire una famiglia?
“Mi piacerebbe. Ma, prima di mettere al mondo un bambino, voglio la certezza che avrà un padre. Io, che non l'ho praticamente avuto, sento davvero che si tratta di una presenza indispensabile per costruire una famiglia felice.”
Che tipo di sogni fa?
“Sogni? Solo incubi.”
Che tipo di incubi?
“Incubi terribili.”
Gira la domanda a me. Le piace particolarmente l'incubo in cui sono in caduta libera al centro di una galassia. Mi ascolta rapita, finché un suo assistente viene a dirci che il tempo è finito. Un altro abbraccio, un altro bacio. Finisce così. Fuori sta albeggiando e penso, chissà perché, che non si stupirebbe primo o poi di ricevere una chiamata da lei. Attendo da settimane, ma il telefono tace.